Il testo che avete letto è tratto da una poesia di Roberta Margiotta, e l’ha scritto a soli quindici anni.
È un passo che proclama l’intento della poetessa e che permea tutta la raccolta di poesie “Ero feroce in sogno”; un manifesto degli anni precedenti e successivi a questa dichiarazione.
“Parlerò del senso di infinito
provato guardando il cielo
parlerò delle lacrime e della rabbia fottuta
provata in momenti anonimi
parlerò dell’insonnia che mi prende per mano
quando io vorrei solo dormire.”
Lo spaesamento, la tristezza, la notte, la morte: temi portanti della poetessa che qui già si intravedono. Quella di Margiotta è una poesia di infiniti minori: mari, notti e deserti si espandono ad attanagliare l’animo della poetessa con la loro malinconia, la stessa malinconia che per Leopardi “è un respiro dell’anima”.
Non c’è soltanto decadenza, perché in ogni piccolo infinito convivono due anime in apparente contrasto che insidiano e rinvigoriscono la mente.
I mari di “Ero feroce in sogno” sono mari amniotici eppure sterili, come quelli dell’“Odissea”.
Le notti sono così scure che sembrano risucchiare, ma soltanto così possono mostrarci le stelle brillanti che sono le parole di Margiotta.
I deserti rischiano di farci perdere ma nascondono fonti d’acqua nei posti più insoliti: le risorse che ci servono per sopravvivere sono dentro di noi, da qualche parte.
Quella di Roberta Margiotta è anche una poesia alla ricerca di un rapporto di comprensione con il lettore. La poetessa, sulla scia di Pablo Neruda, conclude la sua poesia come una mano distesa a cercare il prossimo:
“E poi, chi mi avrà capita
io lo riconoscerò”.
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