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Che cos’è mai il “Luz” chiamato in causa da Roberta Margiotta in questi versi tratti dal trentesimo componimento della sua raccolta “Ero feroce in sogno”?
In spagnolo significa “luce”. Nella tradizione talmudica invece Luz indica il coccige, anche detto “osso sacro” perché lo si riteneva l’unico osso del corpo umano a non subire deterioramento.
“La parte di me che resterà anche dopo la mia scomparsa” scrive infatti la Margiotta in questo bel passaggio.
Il Luz è l’osso dal quale sarebbe principiata la resurrezione dei corpi, come già nell’antica tradizione egizia, in cui Iside ridava vita a Osiride a partire dal suo coccige.
Luz è anche la città biblica abitata da esseri immortali ed è il nome ebraico del mandorlo, pianta che occultava l’accesso all’omonima città.
Forse per questo veniva anche detto “il nocciolo dell’immortalità”, proprio come potrebbe essere definito l’amore privilegiato tra due anime gemelle che la giovanissima poetessa, qui al suo esordio letterario, ci narra in questa lirica con una scrittura asciutta eppure tanto ricca di suggestioni.
Le pagine di “Ero feroce in sogno” sono infatti costantemente attraversate da una sottile ricerca poetica che si sforza di andare al di là dell’apparenza di ciò che ci sta intorno per raggiungerne la più intima e imperitura essenza, quella che sfugge ai sensi e che può essere manifestata solo da uno stile fortemente evocativo come quello di Margiotta.

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