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Per quanto ne dicano i numerosi detrattori, Baricco ha inventato un suo stile, proprio come Gadda, Céline, Dos Passos. Solo che, mentre questi ultimi lo hanno fatto per così dire “al rialzo”, sconvolgendo cioè il mezzo linguistico per creare uno stile contorto e fortemente espressionistico, Baricco ha lavorato “al ribasso”, semplificando la lingua, appianando le formule espressive, ricorrendo a una sequenza di frasi brevi o brevissime, preferendo la paratassi all’ipotassi, così da eliminare il più possibile subordinate, incisi, relative. Il risultato è una scrittura nitida, lineare, elementare.
La differenza tra quei grandi autori novecenteschi e Baricco è che, se i primi restano inimitabili, dato il carattere decisamente personale dei loro scritti, e, ogni qual volta si voglia ripercorrere le loro scelte stilistiche, giocoforza si finisce per imitarli al limite del plagio, lo scrittore torinese ha fatto scuola.
Oltre alla scuola di scrittura vera e propria, che ha fondato fisicamente nella sua città d’origine per diplomare tanti piccoli emuli, anche gran parte della produzione letteraria successiva in Italia appare debitrice a questa sua semplificazione formale: dai libri di Fabio Volo a quelli di Moccia o di Walter Veltroni, molti mostrano di aver risentito dello stile baricchiano. Soprattutto gli editor delle grandi case editrici, che, se si valuta quel che in media viene pubblicato annualmente, danno l’idea di voler ridurre ogni testo che capiti tra le loro mani a questa sorta di grado zero.
C’è da aggiungere, a difesa di Baricco, che, come sempre capita, resta di gran lunga migliore l’originale dei tanti facsimili.
(Pensierino della notte: devo scrivere tanto, ogni giorno, e leggere molto di più.)
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