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La letteratura viene considerata, a ragione, la forma ultima e più elevata di espressione linguistica. Rappresenta cioè – almeno in teoria – il più alto grado del linguaggio, laddove dalla pura e semplice comunicazione quotidiana e colloquiale a fini pratici si passa a un peso e a un valore ben più incisivi.
Per prendere a prestito i termini della filosofia di Heidegger, avviene che la chiacchiera si trasformi in parola: lo scrittore non si limita a usare i vocaboli nella maniera corrente, ma cerca di dar loro il giusto spazio e la giusta enfasi. E anche quando il testo imita apparentemente la lingua di tutti i giorni, il suo autore opera in realtà un trucco affinché esso assuma una dignità letteraria e non risulti invece sciatto e banale.
Per questo è difficile imparare a parlare una lingua straniera dalle opere di narrativa: si rischia un tono pomposo e artificioso per nulla confacente a un normale dialogo nella vita reale. Ne seppe qualcosa James Joyce il primo giorno che sbarcò a Trieste. Aggirandosi dalle parti del porto, adocchiò un acceso battibecco tra un poliziotto locale e un marinaio inglese piuttosto alticcio. Si avvicinò per fare da interprete tra i due, con la speranza di calmare gli animi. Il problema era che l’unico italiano che Joyce conoscesse era quello scritto di Dante Alighieri e di Gian Battista Vico. Non si sa con quali parole si sia rivolto al tutore dell’ordine pubblico, l’unica notizia certa è che finì per passare l’intera notte nelle patrie galere.

(Pensierino della notte: devo scrivere tanto, ogni giorno, e leggere molto di più. Pensierino del giorno: non basta avere ispirazione, creatività e talento: per scrivere bene servono anche disciplina, determinazione e allenamento.)

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