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Quanto deve scrivere un autore? Deve riempire gli scaffali delle librerie oppure deve centellinare le proprie uscite editoriali? Si deve affidare ai capricci dell’ispirazione o deve prendere la scrittura come un mestiere più che come un’arte ideale, e darsi da fare, sforzandosi di produrre esattamente come un qualunque altro impiegato di concetto?
Non c’è una regola.
Ci sono scrittori che hanno lasciato opere monumentali per lunghezza e valore, come Proust con la sua “Recherche”, altri che hanno pubblicato in serie, altri ancora che si sono affidati a un genio saltuario e pignolo, dando alle stampe solo pochi capolavori.
Il caso più eclatante è quello di Radiguet, passato alla storia della letteratura per un unico breve libro: giovanissimo, fece appena in tempo a veder pubblicato “Il diavolo in corpo”, elogiato da critica e pubblico, per poi morire di tifo subito dopo.
Poi ci sono colleghi come Salgari, costretti da contratti capestro a una scrittura a cottimo, concepita per gli amanti di una letteratura popolare e di facile consumo. Dostoevskij per altro verso diede vita a romanzi-fiume ambiziosi e ricchi di suggestioni filosofiche e morali, confermandosi lui stesso, a suo modo, uno stacanovista della penna.
Tra autori prolifici e autori più avari, forse è meglio attenersi alle parole di Burgess, che, di fronte a quegli scrittori che lamentavano il fatidico blocco, tagliava corto affermando che un bravo autore riesce a riempire fino a una ventina di buone pagine al giorno.

(Pensierino della notte: devo scrivere tanto, ogni giorno, e leggere molto di più. Pensierino del giorno: non basta avere ispirazione, creatività e talento: per scrivere bene servono anche disciplina, determinazione e allenamento.)

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