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La traduzione di un testo dalla lingua in cui è stato scritto a un’altra è da sempre una necessità e, allo stesso tempo, un cruccio.
Fin dai tempi delle traduzioni dell’epica e dei filosofi greci in latino ci si è posti il problema di come rendere appieno il senso di un testo, specialmente il suo senso più profondo, attraverso un vocabolario diverso da quello concepito dall’autore per esprimere le proprie idee. Non basta trasformare pedissequamente le parole di partenza in quelle straniere per trasmetterne bellezza e contenuti. Anzi, il più delle volte un tipo di traslazione terminologica come questa rischia di produrre l’esatto contrario, dando vita a un testo impoverito e scialbo.
Il traduttore deve essere capace in qualche maniera di reinventare l’originale in modo da trasferirne e riadattarne il succo in una cultura spesso molto diversa, non per nulla si fa sempre notare come in latino “tradurre” si dica “tradĕre”, che vuol anche dire “tradire”.
Per forza di cose, chi è chiamato a tradurre un libro in un diverso linguaggio si vedrà costretto a contraffarne alcune parti, specie le espressioni idiomatiche e più legate all’ambiente d’appartenenza, per farlo godere a lettori di altre nazionalità.
Se questo discorso vale meno per la letteratura di consumo, come i romanzi gialli che, bene o male, mantengono il senso della trama anche in tutte le altre lingue, si complica man mano che il testo si fa più pretenzioso, trovando il suo punto di massima difficoltà nella poesia.

(Pensierino della notte: devo scrivere tanto, ogni giorno, e leggere molto di più. Pensierino del giorno: non basta avere ispirazione, creatività e talento: per scrivere bene servono anche disciplina, determinazione e allenamento.)

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