I puristi della lingua vorrebbero convincerci a usare solo termini italiani (un po’ come sotto il fascismo, quando si inventò “tramezzino” per sostituire “sandwich” o, in maniera più farsesca, “pompono” al posto di “pompon”): secondo costoro, non si dovrebbe dire “lockdown” ma “chiusura, non “triage” bensì “smistamento”, non “smart working” ma “telelavoro”, solo per restare ai termini più inflazionati in questi ultimi tempi.
Non sappiamo se si spingano a pretendere che si utilizzi “ferramenta” al posto di “hardware” e “topo” al posto di “mouse”.
L’italiano è una lingua splendida e completa in ogni sfumatura, ma ciò che i difensori a oltranza della purezza linguistica sembrano voler ignorare è che se il nostro idioma è tra i più ricchi e suggestivi è proprio grazie al fatto che da sempre ha assorbito i forestierismi, così da dare vita a una ricchezza di sinonimi quasi introvabile in altre lingue.
Questo è dovuto alle vicende storiche del nostro Paese, che, dopo la caduta dell’Impero Romano, si vide invaso da una lunga successione di popoli stranieri che “inquinarono” il latino ufficiale con forme espressive nuove.
“Cavallo” anziché il classico “equus”, “guerra” anziché “bellum”, “bosco” in luogo di “selva”. Spesso un forestierismo non è un semplice sinonimo, ma indica qualcosa di simile ma più specifico, come “boutique”, che è un tipo particolare di negozio, o “peluche”, che è un tipo di pupazzo.
Il consiglio è dunque quello di accogliere le parole straniere, seppure con lucida parsimonia, quando non fanno che accrescere le potenzialità semantiche del nostro linguaggio.
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