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“Sei madre? Hai in programma di avere dei figli?”
Queste sono due domande che non dovrebbero mai essere poste a una donna durante un colloquio di lavoro.
Anche perché basterebbe consultare qualunque esperto di diritto per sapere che, oltre a essere discriminatoria, una richiesta del genere in fase di selezione lavorativa è illegale.
Eppure tantissime donne hanno dovuto fare i conti con queste domande almeno una volta nella vita.
Immagino che a nessun uomo sia stato chiesto, nel bel mezzo di un colloquio, se sia padre o se desideri diventarlo (e sarebbe una domanda discriminatoria e illegale anche rivolta a lui).
Ma ogni volta che sento di donne o ragazze che, invece di parlare delle proprie attitudini o esperienze professionali, sono obbligate a spiegare dettagli talmente intimi, mi sembra di rivedere la scena del film “Gli ultimi saranno ultimi”, in cui alla protagonista non viene rinnovato il contratto perché incinta.
E, ogni volta, resto senza parole.
Lavorare è un diritto sacrosanto.
Così come diventare madri, mettere al mondo un essere umano.
Diritti che, però, per qualcuno non possono coesistere. Come se essere una lavoratrice implichi il non essere madre, e viceversa. Quasi che i figli fossero una distrazione o un impedimento al lavoro.
Diritti che, nel silenzio di troppe donne, vengono calpestati ogni volta che qualcuna di noi trema non sapendo cosa rispondere: rispondere di sì, ed essere scartate, o umiliarsi e mentire perché quel lavoro ci serve come l’ossigeno?
E dopo, che bisogna fare?
Continuare a mentire a noi stesse e rinunciare ad avere un figlio, per non contrariare il datore di lavoro e compromettere la carriera?
O umiliarsi ancora di più ricorrendo alla menzogna e all’inganno pur di avere un figlio?
È inaccettabile che ancora oggi le donne, pur di tenersi un lavoro, debbano inventare storie surreali per giustificare una gravidanza “indesiderata”.
E non possano, semplicemente, dignitosamente, decidere in piena autonomia se e quando avere un figlio, come qualunque lavoratore.
(Sara D.)

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