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Tutte conosciamo il marchio Victoria’s Secret.
E tutte, almeno una volta nella vita, abbiamo provato un pizzico d’invidia per i cosiddetti “Angeli”, le perfette top model che rappresentano questo brand sulle passerelle di mezzo mondo e negli spot televisivi: icone di una femminilità inarrivabile per noi comuni mortali.
Ma di recente Victoria’s Secret ha deciso di cambiare stile, puntando tutto sull’inclusività.
Cominciando dalle nuove ambasciatrici che sono state scelte per rappresentare l’universo femminile a tutto tondo, come Megan Rapinoe, una delle più forti calciatrici del mondo nonché attivista Lgbtq+ e Adut Akech, modella, ex rifugiata e sostenitrice del mental wellnes, fino alla realizzazione di prodotti con taglie rivolte a ogni tipo di fisico, e all’istituzione di un fondo per la lotta ai tumori femminili.
In altre parole, non solo bellezza, ma anche impegno sociale e apertura a 360 gradi.
Un’iniziativa meritevole e assolutamente in linea con i tempi.
È probabile che dietro questo cambiamento radicale ci sia una robusta dose di “rainbow washing”.
Per chi non avesse familiarità con il termine, si tratta di “operazioni simpatia”, di attività di marketing “gay friendly” o di campagne che esaltano e appoggiano in toto la filosofia green, spesso promosse da aziende che danno un pesantissimo contributo all’inquinamento del pianeta.
Tutto al solo scopo di aumentare il proprio consenso con il pubblico. E vendere, naturalmente.
Vendere di più puntando sui principi morali e sulle emozioni delle persone, spesso persuase da spot politicamente correttissimi.
Non serve sottolineare che si tratta di una pratica eticamente sleale, profondamente ipocrita e antica come il mondo: per le grandi aziende noi siamo semplici acquirenti da spolpare, cavalcando (e calpestando) qualunque principio morale, ma almeno adesso potremo indossare un paio di mutande Victoria’s Secret senza sentirci abnormi.
E va beh.
(Sonia F.)

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