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Come ogni domenica, vi presentiamo un brano tratto dalla nostra pagina FB e IG @DonnenonfacciamoloinRete, nata per tutelare le donne e i minori dai pericoli del web.
Qualche giorno fa sui social sono incappata in uno dei tanti, troppi video in cui si espongono minori.
Avete presente quei video in cui i bambini vengono messi davanti a un telefono per essere ripresi? Siamo invasi da contenuti di questo tipo: video divertenti o strappalacrime a cui senza pensarci mettiamo un like.
Eppure, è proprio quel like che spingerà i genitori a creare ancora più contenuti con i bambini, esposti nei loro momenti più intimi senza alcun filtro né rispetto.
Riflettiamoci un attimo: quei bambini hanno mai dato il consenso a questo sfruttamento mediatico?
Ci sono profili social che creano esclusivamente contenuti sui minori, con madri e padri che li sfruttano per acchiappare like e nutrire il proprio ego – quando va bene.
Perché nei casi più eclatanti i figli vengono messi a lavorare per incassare soldi dalle sponsorizzazioni dei brand.
Perché non chiamarlo sfruttamento minorile? I presupposti sono gli stessi.
Vedo sempre più spesso bambini privati della propria infanzia, trasformati in piccoli adulti che si truccano, testano creme antirughe e indossano vestiti come le influencer più navigate, o che fanno pubblicità ad accessori e giocattoli come piccoli Mastrota.
È ancora più sconcertante quando i bambini hanno una particolare condizione di salute: con la scusa di “normalizzare” e di far conoscere la malattia o il disturbo, i genitori espongono i minori, fanno pubblicità ai brand e incassano dalle campagne di raccolta fondi, tutto a scapito della “infanzia” dei figli, che avrebbero diritto come tutti i bambini a non doversi preoccupare di nulla, a parte studiare.
Su questo argomento c’è un caso tristemente noto: una ragazzina anoressica che nonostante le sue ripetute suppliche di smetterla, viene costantemente ripresa dalla madre che la dà in pasto agli sguardi affamati di gossip degli utenti social, e ne trasmette in diretta le difficoltà, i pianti e i viaggi in ospedale.
Ditemi se questa non è violenza.
(Sonia F.)

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