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#donnecomenoi

 

Piove di brutto, è appena passato il gran caldo ed eccoci qui, attraversate dal vento. Come ogni anno, agosto se ne va con un bacio che leva il respiro e lo ridà, il profumo di settembre nell’aria. È sempre una sensazione inebriante, che condivido con la mia amica Silvia, sotto l’asciugamano in comune che ci ripara dall’acqua; ridiamo, abbiamo gli occhi lucenti, e le nuvole corrono appena qualche centimetro sopra le nostre teste, mentre una poiana passa rapida e maestosa sopra di noi…
“È veramente terapeutico,” dice lei.
E io sospiro. E taccio.
Non voglio rovinare questo momento con le parole.
Non voglio rovinarlo con “quella” parola.
Non so quando si è dato il via a questo uso smodato del termine “terapeutico”, ridotto ad aggettivo di ogni tipo di esperienza piacevole, utile o bella. Ortoterapia, ippoterapia, thalassoterapia, danzaterapia, cromoterapia, e poi la musica, l’arte, il riso, il silenzio…
Ogni branca riportata a una funzione, ogni espressione stretta nello scopo di “guarirci”, assisterci, come fossimo sempre malate, zoppe in qualche aspetto, e come se invece di godere del “bello stare” o del “bel fare” dovessimo aggiustarci costantemente, trovare la giusta ricetta che ci corregge.
Così, invece di fiorire nella gioia di vivere, di rinfrancarci e irrobustirci per il vento e per il sole, di crescere con il profumo dell’aria, stiamo sempre a leccarci le ferite. Che naturalmente non guariscono.
E il piacere si allontana a passo sostenuto, per il terrore di diventare l’ennesimo dovere da assolvere a servizio di un Ego incerto e lagnoso, incapace di evolvere e di ridere di sé.
(Anna B.)

 

 

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