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“No guarda, non c’è via d’uscita, sono legata mani e piedi…”
Cristina arriva a questa frase solitamente al 18esimo minuto delle nostre telefonate, e questa era l’ennesima in cui doveva riversare su di me il milionesimo episodio che testimonia la sua infelicità coniugale. Che strazio.
A sentirla, però, mi sono tornati in mente quei due fidanzati ucraini, Alexander e Viktoria, che hanno pensato bene di consacrare il loro San Valentino legandosi l’uno all’altra con delle manette, convinti che sarebbe stato un buon modo per risolvere il problema delle continue liti e discussioni. Quando si dice prendere alla lettera una metafora…
Ovviamente, non hanno disdegnato di farsi fotografare e filmare, con il risultato di ottenere attenzione mediatica per qualche giorno, poi più nulla.
Saranno ancora lì a “divertirsi” in favore di videocamera? Vorrei poterlo verificare, ma non trovo traccia dei loro profili social. Meglio così, la faccenda è già abbastanza triste.
Mentre la mia amica parlava, ho visto con chiarezza le corde che usa per legarsi da sola a questo compagno che non la capisce, non la ascolta, che ha esaurito ogni interesse per la qualità del loro matrimonio. Come tanti, loro due non si separano con la scusa dei bambini, sicuramente disorientati da genitori confusi e incapaci di pensare onestamente alla propria felicità, figuriamoci alla loro.
Cosa li tiene ancora legati? Perché incatenarsi?
È facile immaginare le ragioni di questi prigionieri volontari, le ombre gigantesche di cui hanno paura. La solitudine, certo, ma cosa c’è di più triste che essere soli in due?
E poi l’eco di una sottomissione obbligata, di una protezione necessaria, che è alle spalle del mito dell’amore-passione, che deve fare male se no non vale, se no non possiamo permettercelo (non è di questo che si nutre l’immaginario erotico di corde e manette?).
Un binomio croce-delizia che ancora getta la sua malia su troppe ragazze di ogni età, che scambiano una trappola per una favola, ma usurata e decrepita, e attendono, per svegliarsi, un principe di cui (per fortuna) si sono perse le tracce già da un bel po’.
Che autentica avventura sarebbe, invece, vivere.
(Francesca C.)

 

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