In molti, di recente, stanno celebrando l’arrivo di alcuni spot “diversi” che iniziano a farsi strada nel mare di corpi scolpiti e visi pesantemente ritoccati.
Ovvio: corpo e viso perfetti sono l’imperativo che da anni ci perseguita in televisione, sulle riviste, nei cartelloni pubblicitari. Perciò basta vedere in uno spot un corpo normale, un primo piano di una pelle non omogenea, un filino di cellulite e i consumatori gridano al miracolo: evviva, qualcosa sta cambiando, c’è uno come noi in copertina. Ma dietro questi sporadici esempi di virtuosità, spinti da strategie di marketing e non da buoni sentimenti, la sostanza non cambia: i valori su cui l’industria dei cosmetici si basa sono sempre gli stessi.
Niente rughe, niente inestetismi. Una corsa continua verso una giovinezza plateale, verso un corpo non intaccato dalla vita, ma ricoperto di costosissime creme, sieri, rimedi “straordinari”. Si sa, questo falso valore della giovinezza, così duro a morire, è stato proiettato sulle donne proprio dagli uomini: l’idea che giovane significhi bello appartiene a un canone di bellezza maschile, che, negli anni, è stato forzatamente interiorizzato dalle donne.
Le creme antirughe e i trattamenti estetici, ormai, non servono a piacersi, ma a piacere, ad appagare il cosiddetto “male gaze”, lo “sguardo maschile” che giudica, valuta e perseguita le donne, all’apparenza impossibile da eludere. Ma a chi giova questo imperativo di perfezione? Chi si arricchisce? La nostra autostima?
Mentre una nuova generazione di spot finge di celebrare una bellezza diversa, le aziende continuano a guadagnare cifre da capogiro dalle insicurezze di donne e uomini, spinti a un’eterna insoddisfazione: “va bene, siete bruttini/vecchi/in sovrappeso, ma con i nostri rimedi potrete essere più belli”.
Promesse infide.
Finché non ci riapproprieremo della facoltà di decidere cosa davvero ci piace e come vogliamo essere, con i nostri corpi perfettamente imperfetti, le pubblicità pseudo-progressiste non servono a niente.
Anzi, confondono le acque più dei corpi di plastica. (Francesca C.)
Ovvio: corpo e viso perfetti sono l’imperativo che da anni ci perseguita in televisione, sulle riviste, nei cartelloni pubblicitari. Perciò basta vedere in uno spot un corpo normale, un primo piano di una pelle non omogenea, un filino di cellulite e i consumatori gridano al miracolo: evviva, qualcosa sta cambiando, c’è uno come noi in copertina. Ma dietro questi sporadici esempi di virtuosità, spinti da strategie di marketing e non da buoni sentimenti, la sostanza non cambia: i valori su cui l’industria dei cosmetici si basa sono sempre gli stessi.
Niente rughe, niente inestetismi. Una corsa continua verso una giovinezza plateale, verso un corpo non intaccato dalla vita, ma ricoperto di costosissime creme, sieri, rimedi “straordinari”. Si sa, questo falso valore della giovinezza, così duro a morire, è stato proiettato sulle donne proprio dagli uomini: l’idea che giovane significhi bello appartiene a un canone di bellezza maschile, che, negli anni, è stato forzatamente interiorizzato dalle donne.
Le creme antirughe e i trattamenti estetici, ormai, non servono a piacersi, ma a piacere, ad appagare il cosiddetto “male gaze”, lo “sguardo maschile” che giudica, valuta e perseguita le donne, all’apparenza impossibile da eludere. Ma a chi giova questo imperativo di perfezione? Chi si arricchisce? La nostra autostima?
Mentre una nuova generazione di spot finge di celebrare una bellezza diversa, le aziende continuano a guadagnare cifre da capogiro dalle insicurezze di donne e uomini, spinti a un’eterna insoddisfazione: “va bene, siete bruttini/vecchi/in sovrappeso, ma con i nostri rimedi potrete essere più belli”.
Promesse infide.
Finché non ci riapproprieremo della facoltà di decidere cosa davvero ci piace e come vogliamo essere, con i nostri corpi perfettamente imperfetti, le pubblicità pseudo-progressiste non servono a niente.
Anzi, confondono le acque più dei corpi di plastica. (Francesca C.)