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Si parla tanto, oggi, di modelli femminili. E io mi trovo talvolta a chiedermi quali siano i miei. Le mie radici, le mie origini, il tronco a cui è attaccato il ramo da cui sono sbocciata io.
Cosa faceva mia madre, alla mia età? E mia nonna? Chi erano queste donne che oggi conosco come adulte e anziane, salde e sagge: chi erano prima che io nascessi?
Penso ai mille movimenti femministi che tuttora animano la discussione pubblica, a cui io partecipo con slancio e orgoglio, e ogni volta mi rammarico nel pensare che questa partecipazione è un grande privilegio.
Molte altre donne giovani e meno giovani restano fuori, ancora avviluppate in dinamiche quotidiane che, a detta delle voci del femminismo “pubblico”, sarebbero state smantellate anni fa.
Donne che devono sobbarcarsi in toto il lavoro domestico, e che si ritrovano a lavorare per portare il pane a casa, e anche per cucinarlo.
Donne per cui la sfera familiare coincide con violenze e soprusi di cui non possono parlare, persuase a furia di botte che “i panni sporchi si lavano in famiglia”, e perciò basta lamentele, bisogna lavorare, con il fondotinta ben steso a coprire i lividi.
Oggi mi rendo conto che per queste instancabili donne che popolano la storia di ogni famiglia, vere e proprie leonesse in gabbia, guerriere succubi di una mentalità arcaica, l’unica normalità possibile è sopravvivere: resistere, sopportare oltre ogni limite per il bene della famiglia.
Loro non parlano, perché sanno che nessuno le ascolterebbe.
E noi donne, che abbiamo avuto il privilegio di crescere in ambienti salubri in cui poter sviluppare pensieri di indipendenza, che facciamo?
Chiediamoci cosa succede nelle case degli altri. Chiediamoci se là dentro è tutto idilliaco come sembra e come vorremmo. E poi proviamo a parlarne.
Diamo voce e ascolto alla vita delle donne che conosciamo anche solo di vista, proviamo ad agire, anziché assistere.
Parliamo tra di noi, creiamo un sostegno reale fatto di amicizia e coraggio per abbattere il muro del silenzio.
(Francesca C.)

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