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La tragedia di Satnam Singh è ancora fin troppo vivida nella nostra memoria: la storia del bracciante agricolo abbandonato per strada insieme a sua moglie, dopo che un macchinario gli aveva tranciato un braccio, ha sconvolto chiunque.
L’immagine di quel braccio amputato, buttato in una cassetta per la frutta di fianco all’uomo, è indelebile.
Gli inquirenti stanno indagando sul datore di lavoro che quel giorno si rifiutò di portarlo in ospedale nonostante Satnam fosse gravissimo, e sarà la magistratura a stabilire le colpe e le pene.
A testimoniare, oltre ai colleghi, ci sarà anche Sony, la moglie della vittima, che ha assistito sia all’incidente che all’abbandono.
Ma c’è un’ulteriore tragedia che si sta abbattendo su questa vicenda orribile: la comunità Sikh, a cui appartiene la coppia indiana, ha scoperto che i due non erano sposati, ma solo conviventi e ora sta cercando di allontanare la donna.
“Non erano sposati, lei si stava approfittando di lui e adesso vuole solo prendersi il risarcimento”: pare che siano queste le motivazioni contro la presenza della donna nella comunità indiana di Latina.
Una guerra tra disperati, una gara a chi dovrà subire l’ingiustizia più grave, condita dalla solita logica patriarcale e retrograda: “Questo è ciò che succede a una donna che si allontana dalla sua famiglia per andare a convivere”.
Nonostante questa tragedia sia sotto gli occhi di tutti, la comunità Sikh non retrocede nella sua battaglia alla “convivente” che non può e non deve vantare diritti.
Che non può essere vittima. Che non merita rispetto né solidarietà perché viveva nel peccato.
Come se di fronte a una tragedia così immane e ingiusta, al dolore per la perdita dell’uomo amato, rimangano più importanti le logiche imposte da interessi economici e tradizioni.

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