Hesham Moustafa Kamel Gaber, è questo il nome del 22enne egiziano che è morto sul lavoro a Monza.
Ha perso la vita restando incastrato nel nastro trasportatore per la compattazione dei rifiuti.
Due giorni dopo arriva la beffa: era stato convocato perché la protezione umanitaria che aspettava da un anno era finalmente arrivata.
Hesham era arrivato dalla Tunisia a Savona, dove per un anno e mezzo aveva fatto parte di un progetto di accoglienza gestito da Arcimedia.
Queste le parole del presidente della cooperativa Giovanni Durante: “Era un ragazzo intelligente, curioso: aveva imparato l’italiano e aveva tanta voglia di fare, di lavorare”.
Hesham era uscito dal programma quando l’azienda dove lavorava lo aveva assunto in regola dopo un periodo di lavoro a chiamata, e dove ha trovato la morte in circostanze ancora da chiarire.
È questa la sua storia, come quella di tanti altri, che attraversano il mare in cerca di un futuro migliore. La sua morte e quella dei migranti come lui sono un fallimento per la nostra società, incapace e complice.
I lavoratori stranieri sono soggetti a un rischio più che doppio di mortalità rispetto agli italiani, spesso a causa della mancata o insufficiente formazione, e dell’impossibilità di accedere a lavori meno rischiosi.
Quelle storie dolorosissime che abbiamo letto nei romanzi di Mohsin Hamid, Chimamanda Ngozi Adichie o Min Jin Lee non restano purtroppo confinate alle pagine di un libro. Non c’è bisogno di andare troppo lontano per conoscere le speranze, le disillusioni e la discriminazione degli immigrati in una società che non accoglie. Sono fatti che accadono in Italia, nelle città che abitiamo.
Della storia di Hesham Gaber non si è parlato, e non possiamo far altro che condividere le parole di Durante: “Non abbiamo letto il suo nome da nessuna parte, quasi fossero numeri, considerati solo forza lavoro come se poi dovessero scomparire. Sono persone con un nome, un volto e una storia”.
Come ognuno di noi.