Un anno fa, nell’ambito di un’inchiesta contro alcuni membri appartenenti a clan della ’ndrangheta, gli investigatori di Palmi ascoltano alcuni indagati preparare uno stupro via chat, e scoprono che gli stupri vanno avanti da oltre due anni.
Le vittime sono minorenni, gli stupratori anche. Le violenze vengono filmate e condivise come un bonario trofeo tra amici.
Sembra l’ennesima storia orribile di ragazzini che infieriscono uno sull’altro senza la minima capacità di giudizio etico, e invece questa volta l’abisso si spinge oltre.
La famiglia di una delle vittime, infatti, tenta in ogni modo di far ritirare la denuncia contro gli stupratori, che sono tutti figli di politici locali o di esponenti della ’ndrangheta.
La insultano, la minacciano: “Sei pazza, perché non ti ammazzi?” le dicono nelle tante intercettazioni, e contattano uno specialista affinché la ragazzina venga dichiarata incapace di intendere e volere.
Ma gli inquirenti intervengono e i familiari finiscono tutti agli arresti domiciliari.
Qualcuno ancora si domanda come mai le donne spesso abbiano paura a denunciare le violenze e gli abusi psicologici subiti.
Qualcuno ancora si stupisce che dei minorenni stuprino con metodo e con ferocia due coetanee, trattandole come pezzi di carne inanimata.
E si scrivono fiumi di parole quando una vittima di stupro si toglie la vita, incapace di sopportare tanta violenza. Anche se le parole in quei casi non servono a niente.
Però nessuno parla di tutte quelle vittime che giorno dopo giorno sono obbligate a resistere a ogni genere di pressione e trauma, e lo fanno per sopravvivere, per tentare di avere ancora una vita e un corpo, una volontà e una dignità inviolabili.
Troppo spesso nessuno sostiene il loro immenso coraggio.