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Milano, negli ultimi 10 anni, ha attratto ancora a sé nuove generazioni di donne e uomini che hanno scommesso sulla città per la formazione e il lavoro. Un po’ per sfida, un po’ per darsi un’occasione.
Non sono certo arrivati con le valigie di cartone, ma con portafogli sufficienti a pagare affitti alti, università e master, e a sostenere uno stile di vita che a fine settimana, al netto di apericena e colazioni, lascia poco spazio alla fantasia.
Questo prima del Covid, naturalmente. Perché con il lockdown della scorsa primavera tanti di loro sono rimasti intrappolati nella città e appena possibile sono partiti per trascorrere a casa l’estate – sui monti, al mare, e in luoghi che così spesso fanno dell’Italia il regno della bellezza. Lo smart
working, come lo studio a distanza, rendevano a quel punto praticabile una via ibrida: lavorare senza trasferirsi in un’altra città, prendere tempo senza dover scegliere tra “casa e lavoro”.
Si è fatta strada così un’idea che ha preso il nome di South Working: restare dove si è nati o cresciuti e lavorare a distanza. È nato anche un movimento (www.southworking.org) che inquadra e sostiene una scelta di questo tipo in tutti suoi aspetti, compresa l’assistenza legale per contratti e accordi.
Cosa succederebbe alla metropoli da bere se improvvisamente tutte queste persone la svuotassero, non possiamo immaginarlo; resterà per tante di loro il desiderio di confrontarsi con quel contesto più multiculturale, più internazionale, sulla ricchezza dello scambio nell’incontrare altre persone. La formazione migliore resta, ancora, un’esperienza di incontro, sul lavoro, ma anche nelle relazioni tra persone.
Per le donne “uscire di casa” è stato un passaggio fondamentale per immaginare la propria autonomia in termini di professione o di relazioni e amicizie, e proprio Milano ha rappresentato per tante di loro l’occasione di una solida indipendenza, non solo economica. Perciò, ciascuno a casa sua, davanti al computer, non sarà alla lunga limitante?

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