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“Strappare lungo i bordi”, la serie animata del fumettista Zerocalcare, è divenuta oggetto di culto su Netflix.
Fenomeno virale?
Moda del momento?
O, in effetti, questa serie ha davvero qualcosa di importante da dire?
Sicuramente, puntata dopo puntata, si percepisce quel senso di spaesamento, di costante incertezza e perenne precarietà con cui fanno i conti i cosiddetti “millennials”, i nati tra gli anni Ottanta e la fine dei Novanta, che sono il pubblico di riferimento della serie di Zerocalcare.
Ma questo clima è solo una sfumatura, uno sfondo all’azione dei personaggi.
Andando avanti con gli episodi, infatti, ci si rende conto che le tematiche su cui si vuol porre davvero l’attenzione sono altre. Più profonde, più intime, spesso dolorose.
Su tutte, il suicidio.
“Chi non ci ha mai pensato, almeno una volta?” ha dichiarato l’artista in un’intervista.
Già, bella domanda.
Chi non ha mai pensato di togliersi la vita per trovare la scappatoia da un problema che sembra non avere vie d’uscita o per mettere fine a una insopportabile sofferenza?
Chi, almeno una volta, non si è sentito “morto dentro”? Non riuscendo a trovare il proprio posto nel mondo, ha pensato anche solo per un attimo di farsi da parte per sempre?
Tra questi dolorosi interrogativi, che costringono chiunque a guardarsi dentro, c’è però l’altra faccia della medaglia, quella proposta negli episodi conclusivi di “Strappare lungo i bordi”: nessuno è davvero da solo, nessuno lo è mai stato veramente e mai lo sarà.
Forse serviva questa serie per dichiarare apertamente che chiunque è più grande del proprio dolore, in qualunque situazione, anche quando tutto sembra perduto, perché le ferite dell’anima guariscono sempre. Se noi siamo intenzionati a guarire.
Se noi siamo in grado di riconoscere quanto la vita sia preziosa, sempre.
Nonostante le cicatrici che portiamo addosso: sono quelle cicatrici a ricordarci che ce l’abbiamo fatta proprio quando sembrava impossibile.
Perciò, vi auguriamo uno splendido Natale…

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