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Tutti conosciamo la Barbie, la bambola per eccellenza, un’icona per generazioni di bambine devote alla bionda di plastica con il sorriso ammiccante.
Lei e il suo inseparabile Ken sono da sempre la rappresentazione della coppia di ragazzi bellissimi, impeccabili, vestiti alla moda.
Adesso, però, è in arrivo una svolta nel mondo della Mattel, ovvero la collezione “Barbie Fashionistas”, quasi duecento modelli di bambole per raccontare la diversità.
Varie tonalità di pelle (quindi non solo il modello base biondo e occhi azzurri), di corporatura e disabilità.
Tra queste, una Barbie con l’apparecchio acustico e un Ken con la vitiligine, la malattia della pelle che genera macchie dovute alla mancanza di melanina.
“È importante che i bambini si vedano riflessi nel prodotto e che allo stesso tempo siano incoraggiati a giocare anche con bambole che non gli assomiglino per aiutarli a capire l’importanza dell’inclusione” ha dichiarato Lisa McKnight, uno dei vertici dell’azienda che produce le Barbie.
In effetti, conoscere e comprendere la diversità già da piccoli significa imparare a vedere la bellezza e unicità delle persone.
Ma non bisogna dimenticare che iniziative come queste sono l’esempio perfetto dell’ormai frequentissimo “rainbow washing”, ovvero le attività sociali e di marketing che le grandi multinazionali mettono in atto solo per aumentare il consenso nel pubblico dei consumatori, facendo leva su tematiche come l’emancipazione femminile, l’ambientalismo, il body positivity, l’apertura verso il mondo Lgbtq+ e l’inclusione, per mettere a tacere le aspre critiche relative alla loro condotta nei confronti del pianeta e delle persone.
Quali che siano le motivazioni della Mattel, poco cambia, se servirà a educare milioni di bambini alla diversità e all’accettazione dei propri e altrui corpi imperfetti.
Però dispiace constatare per l’ennesima volta che le particolarità e disabilità con cui milioni di persone convivono ogni giorno vengano usate come specchietto per le allodole per aumentare ricavi ultramiliardari.

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