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Se prima dell’inizio di uno spettacolo, di un film al cinema o di un concerto si invitano i partecipanti a spegnere i cellulari, un motivo ci sarà.
Peccato che questo invito talvolta cada nel vuoto.
Qualche anima di buon cuore imposta la suoneria su “silenzioso”, i più ligi spengono i loro smartphone, ma la maggioranza si limita a far finta di non aver capito.
E può accadere che lo squillo di un cellulare interrompa un’opera di caratura internazionale, come qualche settimana fa al Teatro alla Scala di Milano.
L’orchestra, diretta dal Maestro Riccardo Chailly, stava eseguendo l’aria “Patria oppressa”, una delle più celebri del “Macbeth” di Verdi, quando un telefonino ha cominciato a squillare in platea.
“Risponda pure, noi riprendiamo dopo” ha detto il direttore, interrompendo l’esecuzione.
Peccato che il “Macbeth” non fosse eseguito solo per il pubblico presente a teatro, ma anche registrato in presa diretta per la Decca Records di Londra.
“Purtroppo, eseguire ‘Patria oppressa’ con l’ostinato suono del telefonino non è possibile” ha spiegato Chailly, raccogliendo l’applauso dei presenti.
Al di là della figuraccia del proprietario del cellulare, la questione è un’altra.
Siamo davvero arrivati al punto di non essere più capaci di staccarci dal mondo digitale e dalla connessione con gli altri?
Perché se è così, ci siamo inevitabilmente preclusi la possibilità di goderci appieno la visita in un museo, la bellezza di un concerto o l’intensità di uno spettacolo, “schiavi” del bisogno di controllare notifiche, rispondere a messaggi e telefonate.
Se si trattasse di semplice maleducazione, poco importa.
Ma il timore è che, forse, ci sembra davvero prioritario essere costantemente interconnessi e raggiungibili.
Qualcuno si ricorda ancora com’era la vita (e come eravamo) quando non esistevano i cellulari?

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