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Ancora mi riecheggiano dentro le orecchie le parole di una bottegaia del quartiere dove vivevo da bambino: “Eh,” sospirava, “c’è tanta ignorantità nel mondo…”.
Fin da allora presi quell’asserzione tautologica come una testimonianza ancora più efficace, visto che riusciva inconsapevolmente a dimostrare quel che affermava. E in effetti il problema dell’ignoranza sta tutto lì: essa non sa di esistere. In altre parole, la vera ignoranza è quella non consapevole di se stessa.
Tutti siamo ignoranti, e non potrebbe essere altrimenti. Anche il più grande erudito avrà, per forza di cose, lacune incommensurabili inerenti a quelle parti dello scibile umano non di sua stretta competenza. Più in generale, l’umanità è ignorante, e lo sarà sempre, considerando l’enorme quantità di cose che ancora non sappiamo e la relativa lentezza con cui scopriamo fatti sino a poc’anzi ignoti. Esserne coscienti è un bene, è uno stimolo a cercare di migliorarci, apprendendo informazioni sempre nuove.
Il problema insorge quando tale deficit viene negato o, peggio ancora, ostentato con orgoglio, come fanno certi personaggi televisivi, che amano ribadire, ogni qual volta se ne presti l’occasione, la loro scarsa scolarizzazione e la poca pratica con i libri, come se questo rappresentasse una medaglia al valore, anziché un handicap.
Già Pascal individuava tre fasi: l’ignorante, il semidotto e il dotto. Il primo è conscio del suo basso grado di istruzione, il dotto, invece, si considera ignorante: a forza di studiare e conoscere si rende conto che quel che ha appreso, per quanto sia, è quasi nulla rispetto a ciò che c’è ancora da sapere. È il semidotto che, avendo imparato giusto qualcosa, è convinto che quel poco che sa sia tutto ciò che c’è da sapere.
Ciò viene riconfermato, ai giorni nostri, dal cosiddetto “Effetto Dunning-Kruger”, quando cioè individui poco preparati si convincono, non si sa bene come, di essere esperti in un determinato campo di cui misconoscono, in realtà, aspetti fondamentali.
Viviamo in un’epoca in cui l’ammissione socratica “So di non sapere” sembra essersi ribaltata in un paradosso: “Io ignoro di ignorare”.

P.G. Daniel

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