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“Se chiudo gli occhi più forte, se riesco a non aprire le palpebre, sono certa di riuscire a svanire una volta per tutte, lasciando a qualcun altro il compito di arrendersi.”
Mentre scrivevo il romanzo “Il sangue non fa rumore”, ho immaginato spesso che la protagonista, Nia, venisse a sedersi vicino a me e mi raccontasse la sua storia di abusi in famiglia.
Libera da ogni preconcetto, le lasciavo spazio e accoglievo i suoi ricordi cercando di allontanarli dai miei, anche perché è inevitabile, quando si scrive un romanzo, che frammenti più o meno ingombranti del proprio vissuto facciano irruzione. Io invece volevo raccontare quella precisa voce, a tutti i costi.
Eppure, ascoltandola, le mie esperienze di vita continuavano a mescolarsi alle sue, dandomi conferma che il nostro sentire è universale.
Quante storie di sopraffazione abbiamo ascoltato e quante ne abbiamo vissute sulla nostra pelle?
Quante volte ci siamo detti “quella persona è cattiva” e abbiamo creduto che non ci fosse modo di fermare la violenza se non rispondendo con altrettanta violenza o fingendo di non vedere?
Abbiamo ceduto a soprusi verbali o fisici diventando vittime.
Viceversa, di fronte a un gesto gentile talvolta ci siamo sentiti sopraffatti, come se la gentilezza costituisse un’anomalia dell’essere umano. E invece ogni giorno dovremmo ripeterci che la crudeltà è un’alterazione, non il contrario.
Mi piacerebbe poter pensare che esista per tutti un luogo in cui rifugiarsi, una nicchia in cui imparare a farci del bene: la famiglia, la scuola, le relazioni sentimentali.
Ma non è così.
Perciò è necessario saper chiedere aiuto. Bisogna urlare più forte di qualunque segreto, affinché il nostro dolore oltrepassi le finestre serrate, le porte chiuse a doppia mandata, gli sguardi indifferenti.
Se intorno a noi fingono di non vedere, o se davvero non si rendono conto, dobbiamo decidere di mostrare il dolore in tutta la sua crudezza, senza vergogna, senza sentirci colpevoli per gli abusi che subiamo.
Ed è il motivo per cui ho deciso di raccontare la storia di Nia tra le pagine di un romanzo, perché non è giusto che la sofferenza non abbia voce, e perché credo che qualcuno saprà ascoltare.

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