Se, come affermava Alda Merini, la poesia è la pelle del poeta, quella di Roberta Margiotta è una pelle sfibrata, pesante e allo stesso tempo diafana.
Preparatevi a entrare nel sottobosco paludoso dell’intimo pensiero della poetessa, dove vivono lupi spettrali, ombre maligne e voragini invisibili. Dove il mare, acqua salvifica, è lontano e inarrivabile, e la nostalgia di un sogno pervade le tenebre e la decadenza.
“Ero feroce in sogno” è una raccolta di versi che ci racconta di un’esistenza giovane eppure millenaria, della coscienza di donna che nasce con dolore dalla morte della bambina.
Il canto di Margiotta è un richiamo nichilista alla condizione fetale, a una certezza innocente che con l’inesorabile passare del tempo sfugge tra le mani come acqua, e che, come acqua, è implacabile nel suo correre lontano.
“Ho cercato di raggiungere il mare
ma le mie gambe sono state risucchiate
dalla forza
così è stato risucchiato il sogno
e la parvenza di innocenza che restava.”
Quella di Margiotta è una poesia di vuoti, sottrazioni e passività: l’immagine evanescente che rimane è quella di una fuga dalla propria personalità e dall’emozione, elementi chiave del fare poesia (non ve lo diciamo noi, ma T.S. Eliot).
Nei versi di Margiotta osserviamo la natura, e la vita, attraverso una lente che distorce il tempo: tutto è vivo eppure già morto; tutto nasce dalla morte, in un eterno ciclo al contrario.
È una poesia misteriosa alla fonte, di quelle che sembrano sgorgare da un luogo recondito e poco accessibile anche a chi la scrive. Le tenebre evocate sono quelle più ancestrali: le stesse tenebre iniziatiche, teatro di rinascita, che l’umanità fronteggia da quando è nata.
In un mondo piagato dal fare e dall’apparire, Roberta Margiotta rivendica l’idea rivoluzionaria dell’essere. È così che anche la sua poesia non dispensa significati, ma sceglie di vivere per come è.
“Ero feroce in sogno” arriva a noi sulle ali di eco che ricordano Woolf, Plath, Cioran e Ungaretti.
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