“Il sangue non fa rumore” avvisa subito il lettore: questo è un romanzo forte, che parla di famiglia, di fame, di amore e di sangue.
Lilia Scandurra, musicista poliedrica e multilingue, esordisce con il suo primo romanzo, consegnandoci una storia in cui il sangue spadroneggia come un protagonista che rimane sullo sfondo di ogni pagina, in agguato.
Ne sentiamo la presenza costante e la sente anche Gioia, la giovane protagonista che torna dopo anni nel suo paesino natale, perseguitata dal passato e dalle violenze dello zio ridotto ora a uno stato semi-vegetativo.
Un uomo che ha passato anni a riversarle addosso la sua furia nei modi più orrendi possibili pur di esercitare il controllo su di lei.
Ma questo, oltre che materiale, è soprattutto un sangue simbolico.
Fluido primordiale con cui da sempre abbiamo un rapporto fortemente ambivalente, il sangue è immagine di vita fintanto che fluisce dentro di noi, e si trasforma in oscuro presagio di morte quando viene liberato.
Quello di Gioia è un disperato tentativo di liberarsi del nutrimento, non solo mangiando il minimo indispensabile, ma anche “ripulendosi” del sangue che porta dentro, interrompendone il compito principale di portare in circolo i nutrienti.
“Si fa spazio dentro di me uno smarrimento che amplifica gradualmente il bisogno di quei rituali che mi servono per ritrovare l’equilibrio. Lavarmi per bene. Mangiare poco. Contare le mie ossa. Tagliarmi.”
È una storia che si fa grande per contenere una massa pesante e passata sotto silenzio, fatta di abusi, violenza, autolesionismo, disturbi dell’alimentazione, depressione, comportamenti sociopatici che si tramandano dallo zio alla nipote.
Gioia aspirerà alla vendetta per la vita sofferta che ha vissuto, in una espiazione biblica e famigliare che ricorda la voce del sangue spillato da Caino che cerca vendetta per Abele?
O, nonostante tutto, Gioia e lo zio sono legati da un patto di sangue che non ammette vincitori?
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