«Un tempo si diceva che prima di buttare il pane lo si dovesse baciare.
Si diceva pure che chi spreca il pane va all’inferno, condannato a raccogliere pezzi di pane dentro un cesto senza fondo per l’eternità.
Il pane è vita. È il nutrimento basilare. È la prima sopravvivenza. È il minimo, che a tutti si ha da concedere. Anche al galeotto, manco all’infame si nega.
Buscarsi il pane vuol dire trovare di che sostentare sé e i propri cari. Se il bambino gioca con la pagnotta che ha davanti, si guadagna uno scapaccione. Dissipare il pane vuol dire schifare la miseria, insultare chi quel pane non ha, meritarsi giorni senza un tozzo di pane da mordere.
Rifiutarlo a chi ha fame, chiunque sia, è peccato mortale.
Questi il pane lo straziano, lo calpestano, ci sputano sopra, lo mischiano al lerciume di strada purché nessuno lo possa più assaggiare, neanche il più disperato. Ci ballano sopra per renderlo immangiabile. Per negarlo a quegli esseri miserevoli che hanno portato sin lì, coi pulmini blindati.
Glieli appioppano, come tante mignatte pronte a succhiargli quel poco sangue che è rimasto. Li portano nel quartiere, quegli zing*ri schifosi e ladri…
Ah, ma loro mica ci stanno. Non è che gli arriva un regalo così e si inchinano a dire grazie.
Ora glielo fanno capire che significa avere a che fare con gente della loro specie, gente che la spezzi ma non la pieghi. Quegli zingar**ci non li vogliono, punto.»
Il racconto “Il pane”, presente nella raccolta “I confini del male”, è ispirato a un fatto di cronaca di qualche mese fa, quando il comune di Roma decise di destinare alcuni alloggi popolari a un gruppo di persone di etnia rom, scatenando la ferocia razzista del quartiere. I residenti arrivarono addirittura a straziare i panini dei pranzi al sacco confezionati per i rom, pur di non farglieli arrivare.
Vi sono quindi due elementi: il pane, quale elemento primordiale, con tutta la sua carica nutritiva e metaforica, vilipeso senza remore, e lo zingaro, eterna vittima di pregiudizi e di un odio che va al di là delle responsabilità individuali, abbattendosi su di lui per partito preso, contro un’intera genia, senza curarsi del caso singolo e delle sue più elementari esigenze.
Si diceva pure che chi spreca il pane va all’inferno, condannato a raccogliere pezzi di pane dentro un cesto senza fondo per l’eternità.
Il pane è vita. È il nutrimento basilare. È la prima sopravvivenza. È il minimo, che a tutti si ha da concedere. Anche al galeotto, manco all’infame si nega.
Buscarsi il pane vuol dire trovare di che sostentare sé e i propri cari. Se il bambino gioca con la pagnotta che ha davanti, si guadagna uno scapaccione. Dissipare il pane vuol dire schifare la miseria, insultare chi quel pane non ha, meritarsi giorni senza un tozzo di pane da mordere.
Rifiutarlo a chi ha fame, chiunque sia, è peccato mortale.
Questi il pane lo straziano, lo calpestano, ci sputano sopra, lo mischiano al lerciume di strada purché nessuno lo possa più assaggiare, neanche il più disperato. Ci ballano sopra per renderlo immangiabile. Per negarlo a quegli esseri miserevoli che hanno portato sin lì, coi pulmini blindati.
Glieli appioppano, come tante mignatte pronte a succhiargli quel poco sangue che è rimasto. Li portano nel quartiere, quegli zing*ri schifosi e ladri…
Ah, ma loro mica ci stanno. Non è che gli arriva un regalo così e si inchinano a dire grazie.
Ora glielo fanno capire che significa avere a che fare con gente della loro specie, gente che la spezzi ma non la pieghi. Quegli zingar**ci non li vogliono, punto.»
Il racconto “Il pane”, presente nella raccolta “I confini del male”, è ispirato a un fatto di cronaca di qualche mese fa, quando il comune di Roma decise di destinare alcuni alloggi popolari a un gruppo di persone di etnia rom, scatenando la ferocia razzista del quartiere. I residenti arrivarono addirittura a straziare i panini dei pranzi al sacco confezionati per i rom, pur di non farglieli arrivare.
Vi sono quindi due elementi: il pane, quale elemento primordiale, con tutta la sua carica nutritiva e metaforica, vilipeso senza remore, e lo zingaro, eterna vittima di pregiudizi e di un odio che va al di là delle responsabilità individuali, abbattendosi su di lui per partito preso, contro un’intera genia, senza curarsi del caso singolo e delle sue più elementari esigenze.