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Sono nato nel ’76. Ho fatto in tempo a conoscere un’Italia divisa, anzi frammentata. Un’Italia che non si riconosceva come tale: chi rimpiangeva i Borboni al Sud, chi chiedeva la secessione al nord. Sono cresciuto in un’Italia che non piaceva a nessuno, se non a Toto Cutugno. Nella quale la frase più ridondante era: “Eh, siamo in Italia…”, che ricorreva quale mesta giustificazione per ogni stortura sociale, impotenza dello stato, malversazione o insensatezza burocratica. Era una frase pessimista, certo, che però conteneva ancora una consapevolezza utile, un minimo conato di miglioramento.

Da non troppi anni, per ragioni comiziali, oltre che come reazione alla globalizzazione o alla talora indigesta appartenenza all’Unione Europea, abbiamo invece cominciato a ripetere “Sono orgoglios* di essere italian*” così tante volte che lo slogan ormai rischia di suonare vuoto. E allora proviamo a chiederci: per quale ragione dovremmo provare orgoglio?

Per le opere di Michelangelo, la Reggia di Caserta, la Divina Commedia, le invenzioni di Alessandro Volta o la Nazionale di calcio? Le si può ammirare, ma per quale ragione dovremmo esserne orgogliosi? Noi che c’entriamo? Mica ne siamo noi gli artefici.

Ve ne suggerisco una: volete sapere qual è il vero tesoro nazionale? Una ricchezza immensa e popolare, che appartiene a tutti e che tutti noi, in una maniera o nell’altra, contribuiamo a mantenere viva, feconda e prospera? La nostra lingua!

Io non sono di quelli che pensano che la nostra cucina sia la migliore al mondo o che il nostro campionato sia il più emozionante, ma una cosa mi sento di poterla affermare, fregandomene di eventuali proteste: l’italiano è la lingua più bella, più ricca, più strutturata ed espressiva che esista.

La sua bellezza, come spesso avviene, nasce dalla sofferenza. In altre parole, l’italiano nei secoli si è felicemente arricchito e rafforzato in controtendenza con i travagli storici che lo hanno permesso.

Il punto di partenza è il latino, la lingua dell’impero che conquistò il mondo antico, la protolingua da cui tutte le altre lingue occidentali sono state generate. Il nostro attuale idioma, per ragioni geografiche, è quello che più deve alla bella lingua parlata da Cicerone e dai Cesari. Su questo linguaggio originario si sono poi innestati centinaia di nuovi vocaboli, presi a prestito da altri popoli, che non hanno fatto che complicare e, al contempo, rendere sempre più specialistico il mezzo espressivo.

Dopo la caduta di Roma il nostro territorio è stato invaso dalla maggior parte dei popoli antichi e moderni: barbari, arabi, franchi, svevi, francesi, spagnoli, austriaci, tedeschi. Da ognuno abbiamo adottato nuove parole, modi di dire, strutture grammaticali che hanno reso la nostra lingua grandiosa, sterminata e capace di descrivere fatti, concetti, sentimenti meglio di qualsiasi altra, proprio grazie al vasto numero di lemmi, di gran lunga superiore a quello di qualsiasi altra lingua contemporanea, che ha come diretta conseguenza la possibilità di spaziare tra vari sinonimi con differenze semantiche anche lievi, ma spesso decisive per restituire meglio quel particolare pensiero.

Anche i tecnicismi attuali, importati da marketing, mondo economico o commerciale, che nascono come forestierismi, ma vengono presto assorbiti dal parlato quotidiano, non fanno che espandere ulteriormente questo enorme bagaglio comunicativo. E chi storce il naso davanti a neologismi mutuati, per esempio, dalla terminologia tecnologica, rassomiglia a un purista dell’Alto Medioevo che avesse rimproverato i contemporanei che avevano incominciato a usare “caballus” al posto del classico “equus”: la storia avrebbe dato ragione a loro e torto a lui, perché la lingua non viene mai decisa dagli accademici, bensì dal popolo che la usa quotidianamente.

P.G. Daniel

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