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Quasi ogni giorno un nuovo caso di femminicidio irrompe nelle pagine di cronaca nera.
C’è chi rimprovera l’uso di questo termine. Dovrebbero bastare “omicidio” o “uxoricidio”.
Noi pensiamo invece che sia un termine molto efficace, oltre che puntuale: indica come la vittima, prima di essere uccisa, sia stata ridotta, a livello mentale e comportamentale, al ruolo di “femmina”, senza dignità, a uso privato del maschio dominante che, vedendola sfuggirgli definitivamente, non troverà altra via per riportarla a sé che quella di toglierle la vita.
In “I confini del male” di P.G. Daniel, edito da Pop Edizioni, vari racconti rientrano in questa sempre più agghiacciante casistica. Tra di essi c’è la storia di Olimpia e il suo tentativo di liberarsi dal ricco e dittatoriale marito, anche se l’ultimo incontro, nella villa di famiglia ormai disabitata, le sarà fatale.
“Il pianoforte crolla sul pavimento. Lo schianto solleva una nuvola di polvere dall’odore pungente. Si fracassa sul corpo esanime di Olimpia, barrendo una scala musicale sinistra. Le frattura gli zigomi, le costole, le ossa di braccia e gambe.
«Il requiem adatto a te,» commenta lui tra il faceto e l’amareggiato.
Adesso si accovaccia sul primo gradino della scala, per guardare quel che resta di lei. Prima di sedersi, però, solleva un po’ le gambe dei pantaloni, per non sgualcire la stiratura nel mezzo.
Le braccia abbandonate lungo i fianchi, lo sguardo distratto. Il suo pensiero va già a come disfarsi del cadavere. Lo chiuderà dentro un sacco nero.”

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