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Lo scrittore vizioso è un cliché piuttosto stantio, sfociante in gran parte nella leggenda. Si tende cioè a dare un’aura maledetta a molti scrittori soprattutto del passato forse con l’inconscia intenzione di mitizzarli (oggi la questione è cambiata: va di moda il letterato salutista, politically correct, moralmente ineccepibile).
Tanto per dire, Francis S. Fitzgerald o Hemingway sospendevano le fluviali bevute quando si trattava di lavorare a qualche testo, Baudelaire si asteneva dalla “fatina verde” dell’assenzio quando doveva redigere qualche prosa impegnativa, perché la scrittura è lucidità e disciplina, e tutte le esperienze trasgressive compiute dall’artista sono un portato che gli giunge in veste di ricordo, per poter essere elaborato non come stordimento attuale, che non farebbe che inficiare la bontà e l’efficacia del suo lavoro, in attesa di riprendere le brutte abitudini alla conclusione del libro (celebri scrittori festeggiavano la fine di ogni lavoro con sonore sbronze).
C’è però un vizio più pantofolaio, più socialmente accettabile, nocivo ma senza effetti psicotropi, che l’attività dello scrittore favorisce: il vizio del fumo. Molti scrittori sono dei fumatori incalliti, alla stregua di quei picchiatelli che si vedono passeggiare per la città intenti a confabulare tra sé e sé a voce alta, vestiti con accostamenti improbabili e le dita rese gialle dalla perenne sigaretta sempre accesa.
È soprattutto il momento creativo a incrementare il fumo. I passaggi particolarmente avventurosi o complicati sono quelli che si accompagnano a un’accensione sempre più frequente di sigarette, con relative aspirazioni.
Personalmente, l’ho sempre attribuito al fatto che, mentre il corpo è costretto alla pressoché totale inerzia, eccezion fatta per i pochi muscoli coinvolti nella dattilografia, la mente è portata a un’attività talora parossistica: viaggia per universi paralleli a una velocità superluminale, incontra frotte di personaggi tutti da costruire, rivive moltitudini di fatti che è chiamata a ricreare. È una tale disparità, tra mente attivissima e corpo in quiete, a pretendere – credo – uno sfogo fisico, che si scarica appunto in quel gesto compulsivo.

P.G. Daniel

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