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Secondo l’etimologia, il dialetto è la lingua con cui si dialoga, solitamente una storpiatura dell’idioma nazionale, resa più semplice e afferrabile per gli analfabeti che un tempo costituivano la stragrande maggioranza della popolazione.
L’Italia poi fa caso a sé: con la progressiva corruzione del latino classico e l’invadenza delle lingue dei conquistatori stranieri, per lungo tempo il nostro Paese, dov’era nata la lingua che aveva dominato per secoli una gran parte del mondo, si vide suddiviso in una miriade di dialetti anche molto diversi tra loro.
Quello che vinse tra tutti, alla fine, fu il fiorentino, forma embrionale dell’italiano corrente.
C’è chi sostiene che la grande differenza tra lingua e dialetto sia il potere di astrazione che una ha e all’altro manca: in parole povere, è impossibile per esempio parlare di alta filosofia attraverso il vernacolo, perché non ne ha gli strumenti essenziali.
Il dialetto comunque mantiene un attaccamento alla realtà che, forse proprio per le ragioni suddette, la lingua nazionale non può condividere sino in fondo.
Le poesie del Belli o del Porta difficilmente avrebbero potuto avere la stessa carica espressionistica se scritte in un linguaggio scolastico.
Basti pensare a quanta forza mimetica conferisca al testo il romanesco usato da Pasolini nei suoi primi romanzi, mutuato da quello di Gadda, maestro irraggiungibile nell’accostamento di registro alto e basso, quando le espressioni vernacolari entrano dirompenti nello stile più aulico.
(Pensierino della notte: devo scrivere tanto, ogni giorno, e leggere molto di più. Pensierino del giorno: non basta avere ispirazione, creatività e talento: per scrivere bene servono anche disciplina, determinazione e allenamento.)
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