Giunti ormai quasi alla conclusione dell’elenco delle figure retoriche più ricorrenti, teniamo a chiarire il buon uso che lo scrittore dovrebbe farne.
Le espressioni linguistiche codificate non devono rappresentare un semplice giochino o un escamotage per riempire le pagine di vuota e cattiva retorica. Storicamente si sono sviluppate per dare maggiore resa a un testo, in modo da far trapelare, oltre alla forma testuale più esplicita, sentimenti o impressioni intrinseci alle situazioni o ai personaggi descritti.
Facciamo alcuni esempi utili: l’allitterazione non si limita al suono di una serie di parole che riproducono le stesse lettere. Può evocare il balbettio di un animo incerto o il ritmo stentoreo di una dimostrazione di coraggio, dipende sempre dall’uso che se ne fa.
La perifrasi non serve tanto a sostituire banalmente un termine con un giro di parole, quanto a conferire maggiore importanza all’elemento suggerito, come quando Dante parla di Dio, definendolo aristotelicamente “Amor che move il Sole e l’altre stelle”.
L’anafora, che vede ripetersi uno stesso lemma all’inizio di enunciati messi in successione, dà al lettore un incalzante senso di angoscia oppure di meraviglia.
A tal proposito, prendiamo un passo di Pascoli: “Sentivo il cullare del mare/ sentivo un fru fru tra le fratte/ sentivo nel cuore un sussulto”.
L’anastrofe, che inverte l’ordine naturale di una frase, conferisce una particolare rilevanza al termine posposto: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”.
(Pensierino della notte: devo scrivere tanto, ogni giorno, e leggere molto di più. Pensierino del giorno: non basta avere ispirazione, creatività e talento: per scrivere bene servono anche disciplina, determinazione e allenamento.)
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