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Le parole nascono e muoiono proprio come coloro che le adoperano, sebbene la vita dei vocaboli sia assai più lunga di quella media di un essere umano.
Anche qui però ci sono le eccezioni: l’esistenza fulminea di certi neologismi, spesso appartenenti allo slang giovanile, creati e caduti in disuso nello spazio di pochi mesi, come “togo” per esempio, che negli anni ’80 grossomodo equivaleva al recente anglicismo “cool”.
Esistono lemmi che continuano a sopravvivere dentro dizionari e scritti accademici di cattedratici attempati come mitili tenacemente attaccati allo scoglio, nonostante siano praticamente spariti dalla lingua parlata, come “avvezzo” e “aduso” che stavano per “abituato” o “solito” inteso nella sua forma aggettivale.
C’è “edule”, ormai soppiantato sulle confezioni alimentari dal meno corretto “edibile”, che poi significa “commestibile”. Il sinonimo ormai desueto di “potabile” invece è “potorio”.
“Inusitato” non si usa quasi più, anche se suona ancora bene. Al suo posto si preferisce “inconsueto” o “insolito”.
Si dice “vendicativo” anziché “vindice” (che poteva ancora usare il Monti per tradurre l’Iliade). La versione sorpassata sarebbe “ultore” o “ultorio”.
Chi utilizza termini come “obsolescente”, “vetusto”, “longiquo”, “abbacinante”, “agglutinato”? Chi ne ricorda ancora il significato? Chi alla vista di un obeso lo dice “opimo”?
E tra le parole che usiamo quotidianamente quante e quali resisteranno al tempo e quante e quali invece soccomberanno?
(Pensierino della notte: devo scrivere tanto, ogni giorno, e leggere molto di più. Pensierino del giorno: non basta avere ispirazione, creatività e talento: per scrivere bene servono anche disciplina, determinazione e allenamento.)
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