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Spesso si leggono commenti di chi mal sopporta l’introduzione di parole straniere in italiano. “È tanto bella la nostra lingua, perché usare parole o espressioni prese da un’altra?” affermano costoro, con lo stesso amore per il “Made in Italy” che potrebbero sfoggiare parlando della pizza o della mozzarella.
Molti di loro ignorano che gran parte delle parole “italiane” che usano normalmente in realtà sono a loro volta parole “di importazione”, prese da altre lingue decenni o secoli addietro, come “guerra”, che viene dal germanico “werra” col significato di “mischia”, o “faida”, che deriva dal longobardo “faihida” e che vuol dire “ostilità” (e ha pressoché la stessa etimologia dell’inglese “fight”).
Altri barbarismi sono albergo, schietto, zuppa.
Dall’arabo provengono parole come zero, zeffiro, azzurro, cifra, zucchero, algebra, alcol.
E quanti forestierismi usiamo ormai da generazioni come se fossero da sempre appartenuti all’idioma nazionale? Dessert, dossier, festival, film, garage, passe-partout, tour, toast, shock ecc.
Eppure ci sarebbero alternative anche a quelli: dolce, incartamento, rassegna, pellicola, rimessa e via dicendo. Hanno prevalso le straniere sulle italiane perché suonano più eleganti, forse.
La lingua è un’entità fluida, assorbe vocaboli altrui e li fa propri. Non ci sono parole brutte o belle, ma solamente contesti più o meno adeguati.
(Pensierino della notte: devo scrivere tanto, ogni giorno, e leggere molto di più. Pensierino del giorno: non basta avere ispirazione, creatività e talento: per scrivere bene servono anche disciplina, determinazione e allenamento.)
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