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L’antica separazione tra letteratura alta e letteratura di genere è ormai scomparsa. Da tempo i generi sono stati sdoganati, tanto da occupare oggigiorno la maggior parte del mercato editoriale e da meritarsi l’interesse della critica specializzata, che sembra aver definitivamente abbandonato il classismo culturale del passato.
Adesso, almeno in linea teorica, ciò che dovrebbe distinguere un libro dall’altro resta la qualità. In parole povere, la cosa importante è che sia un buon libro, non più il genere di appartenenza.
Prima la questione non era tanto semplice. Il genere letterario rischiava di diventare una gabbia dalla cui cattività un testo sarebbe riuscito a evadere solo grazie alla sua eccezionalità.
È il caso di molti romanzi di D’Annunzio, inizialmente pubblicati in edizioni licenziose e semi-clandestine, o dei libri di Lewis Carroll, che seppero varcare l’angusta nicchia di libri per l’infanzia, imponendosi nel canone generalista.
Vi è poi un romanzo considerato tra le più grandi opere mai scritte, la cui prima edizione tuttavia era stata relegata a un sottogenere destinato a un esiguo numero di estimatori. Parliamo di “Moby Dick”. In quei tempi andava di moda la letteratura di viaggio. In essa si inscriveva la sottocategoria dei viaggi per mare, da cui, a sua volta, nacque il filone dei viaggi sulle baleniere. In tale collana fu pubblicato la prima volta il capolavoro di Melville, riscuotendo una tiepida accoglienza. Era fuori target: etichettata come una semplice caccia ai cetacei, si rivelava invece un testo dal profondissimo spessore filosofico, finendo così per rassomigliare a una balena chiusa in un barile…

(Pensierino della notte: devo scrivere tanto, ogni giorno, e leggere molto di più.)

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