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Arthur Rimbaud è un caso a sé. Dopo aver dato sfogo alla sua vena poetica, riempiendo una dozzina di raccolte di versi suggestivi e oracolari, poco più che ventenne depose la penna una volta per tutte, avventurandosi in viaggi sempre più pericolosi, come se tentasse di sostituire la pratica dell’esistenza all’esercizio astratto della scrittura. Divenuto ormai una figura leggendaria in patria, finì per fare il negriero nell’Africa Nera, dove morì per una cancrena a soli trentasette anni.
Solitamente avviene il contrario: l’incontro con la musa nella maggior parte dei casi risulta fatidico. Dopo aver accumulato esperienze nei primi decenni, c’è un momento nella vita di uno scrittore in cui egli si consegna definitivamente alla sua passione. Inizia a romanzare quelle esperienze, facendone pagina scritta, dopo di che si accorgerà di quanto l’immaginazione, essendo teoricamente infinita, possa dargli maggiori soddisfazioni della vita stessa, nella sua finitezza.
È quasi un cliché quello dello scrittore chiuso in se stesso, a ridacchiare o rabbuiarsi seguendo le proprie fantasticherie, incompreso dal mondo che invece continua a muoversi intorno a lui.
Solo il fatto che prima o poi restituirà quei suoi solipsismi in un testo fruibile dagli altri lo differenzia da quei picchiatelli che girano per strada confabulando tra sé e sé.
Accadde così a Miller, che dopo aver girato il mondo e collezionato amorazzi, sbronze e risse, scoprì l’esigenza di scrivere e non ebbe più bisogno d’altro. 

(Pensierino della notte: devo scrivere tanto, ogni giorno, e leggere molto di più. Pensierino del giorno: non basta avere ispirazione, creatività e talento: per scrivere bene servono anche disciplina, determinazione e allenamento.)

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