Il romanzo “Il sangue non fa rumore” di Lilia Scandurra parte da una domanda: perché le vittime di abusi troppo spesso non si difendono e non chiedono aiuto? E perché nascondono quel che subiscono?
Spesso è per paura delle conseguenze e per il timore di scatenare una violenza ancora maggiore.
Ma a volte, in un rapporto violento, si innescano dei meccanismi che impediscono a un individuo di riconoscersi come vittima di abusi, e lo inducono a ritenere che la violenza sia un aspetto quasi naturale dei rapporti tra esseri umani, comune dunque a molte persone.
Perché accade? Perché chi subisce violenza in alcuni casi rifiuta di considerarsi vittima?
Forse per poter sopravvivere senza impazzire o senza decidere di porre fine alla propria vita.
Ed è quel che accade alla protagonista di questo intenso romanzo, Nia, che da bambina viene affidata alle cure di uno zio fino a quel momento sconosciuto: un individuo taciturno che la obbligherà a un sistema di regole durissime a cui sarà impossibile sottrarsi.
Tuttavia, divenuta adulta, Nia continuerà a vivere seguendo quelle regole crudeli, nonostante sia riuscita ad allontanarsi dal controllo dello zio. Fino a quando un evento imprevisto la costringerà a fare ritorno nella casa della sua infanzia per occuparsi del suo carnefice, seppure a ruoli invertiti, perché adesso è Nia a dettare le proprie regole.
Di seguito, potete leggere un breve estratto:
“Ho una vita normale, anche grazie all’aiuto di una serie di abitudini che mi fanno sentire bene.
Ho bisogno di avere tutto sotto controllo, costantemente.
I miei capelli devono avere sempre la stessa lunghezza, così ogni mese con forbici e righello taglio l’eccesso, misurando dieci centimetri dalla clavicola.
Quando ripongo gli oggetti, per esempio un paio di scarpe o coltello e forchetta, calcolo la distanza precisa di due centimetri l’uno dall’altro.
Faccio il bagno solo nei giorni dispari, dalle 3.30 alle 4.30 del mattino.
Quarantotto, poi, è il peso che devo mantenere per fare tutto quello che devo senza svenire.”
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