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Mi chiedo in che modo i social, da spazio di condivisione e di espressione, siano diventati una vetrina – o un tribunale – per il corpo femminile.
Dai nostri telefoni emerge di continuo un prisma di facce e corpi altrui, di cui è facile rimanere prigionieri: quintali di selfie di bellezze inarrivabili, feed interi di fotografie che moltiplicano visi, espressioni e situazioni, in mille pose sempre uguali.
Quando è comparsa la moda dei selfie, con gli occhiali da sole in casa e le “labbra a gallina”, ne siamo stati in qualche modo travolti, ma era divertente, e a ripensarci oggi sembra quasi un’altra epoca, un periodo ingenuo rispetto ai canoni di rigorosa perfezione proposti e imposti alle attuali adolescenti.
Ora basta un filtro per avere le orecchie da elfo, i fiori in testa, gli occhi di mille colori e, già che ci siamo, anche un bel lifting facciale, che non guasta mai su una tredicenne.
È solo un gioco?
No, perché ogni volta che una ragazza si fa un selfie con un filtro, per gioco o per noia, l’immagine che il suo telefono le restituisce non fa che ricordarle quanto il suo viso sia imperfetto, gli occhi troppo piccoli o le guance troppo paffute: non sia mai che si possa crescere sicuri di sé, con qualche chilo in più e il naso a patata.
Come sottrarsi?
Aiutando gli utenti social a distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è.
I primi segnali arrivano dalla Norvegia, dove oggi, per legge, influencer e modelle dovranno indicare quando le immagini che li ritraggono sono state modificate con programmi come Photoshop o con filtri.
D’accordo, non sarà la soluzione definitiva per superare il senso di inadeguatezza tipico dell’adolescenza, ma è un passo avanti per capire che confrontarsi di continuo con ideali inarrivabili è inutile, oltre che dannoso.
Ogni corpo è imperfetto a modo suo, ogni viso ha i suoi spigoli. Non siamo bambole di plastica, abbiamo carne e sangue in abbondanza, e vivaddio.
(Stefania S.)

 

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