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L’Italia è il Paese occidentale che, da quanto emerso recentemente, conta il maggior numero di stazioni di polizia cinese sul proprio suolo. O così sembrerebbe.
All’estero ce ne sono almeno un’altra ventina e le ragioni della loro presenza non sono tuttora chiare neppure per gli uffici ministeriali.
Solo da poco tempo ci si è resi effettivamente conto della loro diffusione, considerata la discrezione con cui operano sul territorio.
È stata la denuncia partita dalla Ong spagnola “Safeguard Defenders” a muovere sulla questione l’interesse dei mass media e degli organi di Stato.
Il Governo di Pechino sostiene con fermezza che non si tratti affatto di vere e proprie stazioni di polizia, ma di semplici organizzazioni di volontariato che aiuterebbero i cittadini cinesi residenti fuori dai confini nazionali a sbrigare pratiche amministrative, come il rinnovo della patente.
Il sospetto invece è che servano a controllare i dissidenti o semplicemente i cinesi che si mostrano in qualche maniera critici verso la presidenza di Xi Jinping, con conseguenti provvedimenti censori, obbligandoli a rimpatriare per essere sottoposti a sanzioni di cui qui non si sa nulla.
Se questo fosse vero, si tratterebbe ovviamente di un’ingerenza molto grave, oltre che del tutto abusiva, da parte di un paese straniero.
La prospettiva si fa ulteriormente sinistra se si tiene conto che quello cinese è un regime non democratico a tutti gli effetti, abituato perciò a imporre le proprie regole attraverso l’uso di mezzi costrittivi inaccettabili per la nostra Costituzione.
Dopo una recente interrogazione parlamentare il Ministro degli Interni Matteo Piantedosi ha assicurato che disporrà i dovuti accertamenti attraverso l’azione delle forze di polizia italiane.
C’è solo da sperare che le indagini non si perdano nelle solite lungaggini e che la libertà di espressione continui a essere tutelata per qualunque cittadino abiti entro i nostri confini.

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