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Si chiamava Susan John, aveva 42 anni, era nigeriana ed era stata condannata in via definitiva per tratta e immigrazione clandestina.
Scontava la pena presso una struttura penitenziaria torinese per detenuti con difficoltà psicologiche e comportamentali. Il fine-pena era previsto per il 2030.
Susan in realtà è uscita dal carcere molto prima, ma senza vita, dopo essersi rifiutata di bere e mangiare sino a raggiungere uno stato di disidratazione che le è stato letale.
Lo ha fatto di nascosto. Non ha mai comunicato a nessuno di voler fare lo sciopero della fame e della sete.
L’unica frase che ripeteva instancabilmente era di voler rivedere il proprio figlio e di voler fare ritorno nel suo paese d’origine.
Neppure dieci giorni prima della morte uno staff medico aveva controllato il suo stato di salute, senza riscontrare alcuna anomalia fisica o criticità.
Il tribunale, oltre a disporre l’autopsia, ha richiesto una serie di documenti all’amministrazione carceraria per accertare le ragioni che hanno portato la donna a un gesto tanto tragico, seguito poche ore dopo dal suicidio di un’altra detenuta di 28 anni.
Oltre al malessere personale, è possibile che abbia inciso sulle condizioni mentali delle due donne anche qualche fattore esterno legato alle condizioni delle prigioni italiane, sovraffollate e mal gestite, anche a causa del personale costantemente sotto organico?

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